Microplastiche, qualche soluzione

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Ogni anno finiscono negli oceani dai 4,8 ai 12,7 milioni di tonnellate di plastica, delle quali solo una piccola parte è visibile. Particelle di polimeri che hanno invaso anche il nostro terreno e l’atmosfera. E le proiezioni per il futuro non promettono nulla di buono, se è vero che si arriverà ai 12 miliardi di tonnellate entro il 2050. Per invertire la rotta sono necessarie azioni corali che coinvolgano società civile, istituzioni e mondo industriale. E qualche passo nella giusta direzione è già stato fatto

di Carolina Parma

Nulla meglio dei numeri è in grado di fotografare le situazioni e quelli che riguardano le microplastiche nei nostri mari danno da pensare. Basti dire che ogni chilometro quadrato di oceano contiene in media 63320 particelle di microplastica, concentrate in modo differente a seconda delle regioni. Nel sud est asiatico, per esempio, il livello è 27 volte maggiore rispetto ad altre zone, ma anche il Mediterraneo non scherza, visto che vi si concentra il 7% delle microplastiche a livello globale. Percentuale che lo elegge uno dei mari più inquinati al mondo. A dirlo è l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). 

Stando al Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo (EPRS), ogni anno finiscono negli oceani dai 4,8 ai 12,7 milioni di tonnellate di plastica, delle quali solo una piccola parte è visibile sulle coste. Il resto viene trascinato al largo dalle correnti e lì rimane a contaminare l’ambiente, perché degradandosi forma, appunto, particelle microscopiche chiamate microplastiche, nel caso le loro dimensioni siano inferiori ai 5 mm, o nanoplastiche. Queste ultime avendo un diametro inferiore ai 100 nm (nanometro), sono più piccole delle cellule che compongono il nostro corpo e, quindi, risultano invisibili a occhio nudo. Oltre che sulla base delle loro dimensioni, le particelle di plastica presenti nell’ambiente sono classificate in base alla loro origine.

Le microplastiche prodotte volontariamente dall’uomo e inserite nei prodotti sono chiamate primarie e si stima che rappresentino il 15-30% delle microplastiche presenti negli oceani.  Ne sono un esempio le microparticelle rilasciate dai capi di abbigliamento durante i lavaggi, quelle derivate dall’usura degli pneumatici e quelle che si liberano durante l’uso di alcuni prodotti cosmetici come gli scrub, i dentifrici o alcune creme.

Più comuni, invece, sono le microparticelle secondarie, cioè quelle che si formano dalla degradazione degli oggetti di plastica abbandonati nell’ambiente, che si stima rappresentino circa il 70-80% delle microparticelle ritrovate negli oceani.

12 miliardi di tonnellate entro il 2050

Una situazione allarmante, destinata però a peggiorare ulteriormente. Secondo alcuni studi, infatti, le micro e nano plastiche presenti nei mari e negli oceani raggiungeranno i 12 miliardi di tonnellate entro il 2050. Ma l’inquinamento non riguarda solo le acque: è stato dimostrato che 430 mila tonnellate di microplastiche si accumulano ogni anno anche nel suolo dei paesi europei, così come sono state rilevate nell’atmosfera. 

Tutti gli animali marini e terrestri, uomo compreso, sono quindi destinati a consumare e respirare inevitabilmente e inconsapevolmente le micro e nano plastiche.  Si è stimato che ogni persona ingerisce in media dalle 74000 alle 121000 particelle ogni anno.

«Questi dati, già di per sé inquietanti, sono ulteriormente aggravati da osservazioni recenti effettuate su organismi acquatici e roditori, che dimostrano la capacità delle nanoparticelle di attraversare le barriere biologiche, quali la placenta e la barriera intestinale, e di accumularsi nell’intestino modificando la composizione del microbiota», si legge sul sito dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, che specifica: «Ulteriore pericolo legato alla dispersione delle micro e nanoplastiche è la capacità di creare legami sulla loro superficie con molecole estremamente reattive e potenzialmente tossiche, quali metalli pesanti e prodotti di fotocatalisi. Tale processo, meglio noto come “doping-effect”, favorisce fortemente la capacità di penetrare all’interno delle cellule di questi complessi ibridi e potenziarne il loro effetto citotossico e oncogenico».

Le cause

Le cause del proliferare delle micro e nano plastiche in tutto il mondo sono principalmente legate alle attività umane e a una gestione inefficiente dei rifiuti. Ma un peso rilevante nella loro sovraproduzione lo hanno anche le attività in mare come la pesca intensiva, l’acquacoltura e la navigazione, che provocano la dispersione in acqua di nasse, reti e cassette per il trasporto del pesce e rifiuti in generale.

Tanto che già nel 1970, durante una spedizione di due mesi attraverso l’Oceano Atlantico, l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl disse per la prima volta di aver incontrato una vera e propria “isola” di rifiuti di plastica che galleggiava sulla superficie dell’oceano. In seguito a questa scoperta, il Congresso degli Stati Uniti approvò nel 1972 quello che fu definito l’Ocean Dumping Act, un documento che regolamenta le attività di scarico dei rifiuti negli oceani. Senza però ottenere grandi risultati, visto che, a distanza di 50 anni, i rifiuti di plastica ancora soffocano le acque internazionali.

Ricerca continua

Non solo ricerche, provvedimenti legislativi, cambio di cultura dei consumi domestici.  Per cercare di limitare l’inquinamento da microplastiche sono determinanti anche le nuove tecnologie

Per rimediare ai danni prodotti finora sono necessari tempi lunghi e soprattutto sforzi sia da parte dei singoli cittadini, che devono cambiare le loro abitudini di vita e di consumo, sia da parte delle autorità politiche-regolatorie e del mondo produttivo. E qualche timido passo nella giusta direzione, a dire il vero, si è fatto. A livello istituzionale, per esempio, fin dal 2018 l’UE ha approvato diversi provvedimenti contro le microplastiche (divieto di produrre certi prodotti usa e getta, restrizione dell’utilizzo di sacchetti in plastica, limitazione delle microparticelle di polimeri sintetici da sole o intenzionalmente aggiunte alle miscele dei prodotti di uso quotidiano ecc.).

A livello di aziende, invece, si sta facendo strada l’utilizzo sempre più esteso delle bioplastiche, soprattutto per il packaging alimentare, e di plastiche di origine vegetale. A livello globale, poi, il mondo scientifico e tecnologico è costantemente alla ricerca di soluzioni per accelerare la degradazione della plastica.

Un esempio interessante arriva da un gruppo di ricercatori della Chinese Academy of Sciences, guidati dal biologo Chenwang Tang, che, grazie alla scoperta di batteri in grado di degradare attivamente i polimeri, hanno realizzato una plasticacapace di autodistruggersi. Questi batteri capaci di fagocitare la plastica furono individuati per la prima volta nel 2016, all’interno di un centro di riciclo giapponese. Ispirati da questa scoperta, gli scienziati cinesi hanno deciso di incorporare queste proteine “mangiaplastica” direttamente nella struttura dei materiali. 

Il risultato è un materiale realizzato con policaprolattone (PCL), al cui interno sono incorporate spore batteriche geneticamente modificate per produrre specifiche proteine. Quando la plastica inizia a degradarsi, le spore si attivano e rilasciano enzimi che accelerano la decomposizione.

Basti dire che, in condizioni di compostaggio, il materiale si disintegra completamente in circa un mese. Molto più rapidamente rispetto alle versioni biodegradabili tradizionali, che possono richiedere fino a 55 giorni per decomporsi.

Un aiuto dal mondo vegetale

Batte bandiera cinese anche un nuovo studio guidato dall’Istituto di Scienze Ambientali di Nanchino e pubblicato sulla rivista multidisciplinare internazionale Eco-Environment & Health, con l’obiettivo di eliminare la plastica già esistente nell’ambiente. La ricerca, infatti, ha analizzato le proprietà fitodepurative di determinate piante e il loro possibile utilizzo per assorbire e ridurre le microplastiche.

La ricerca identifica possibili meccanismi e percorsi tecnologici per sfruttare la fitodepurazione per combattere l’inquinamento da plastica. In questa prospettiva i ricercatori hanno analizzato il potenziale di diversi tipi di piante per catturare, stabilizzare e filtrare micro e nanoplastiche. Selezionando e posizionando strategicamente queste piante, non solo si può catturare la plastica, ma se ne può ottenere la conversione in sostanze innocue o utili, segnando un progresso sostanziale nella bonifica sostenibile dei polimeri.

«Il fitorisanamento (phytoremediation) non è semplicemente una tecnica; è una rivoluzione sostenibile nella nostra battaglia contro l’inquinamento da plastica. Sfruttando soluzioni basate sulle piante, siamo in grado di ridurre il peso ambientale dei polimeri, trasformando i rifiuti in risorse preziose e promuovendo un pianeta più sano», ha spiegato alla stampa Yuyi Yang, ricercatore principale dello studio. 

Conoscere per gestire meglio

Per rimediare ai danni prodotti finora, si sta facendo strada l’utilizzo sempre più esteso di bioplastiche soprattutto per il packaging alimentare e di plastiche di origine vegetale

Ad accelerare la rimozione della plastica nelle acque punta anche il lavoro portato avanti da un gruppo di ricerca dell’Università di Udine e dell’Università Tecnica di Vienna, che ha analizzato il modo in cui le micro e nano plastiche si spostano e si aggregano, per migliorarne il monitoraggio e le tecniche di rimozione. Lo studio, condotto da Vlad Giurgiu, Giuseppe Caridi, Marco De Paoli e Alfredo Soldati, è stato pubblicato su Physical Review Letters (PRL), la più prestigiosa rivista internazionale di fisica. 

«La maggior parte delle microplastiche negli oceani è composta da piccole fibre allungate, e la loro rotazione durante il trasporto gioca un ruolo cruciale», ha spiegato ai media Soldati, docente di Fluidodinamica presso l’Università di Udine e la TU Wien. «In un canale d’acqua di laboratorio, abbiamo misurato la velocità di rotazione delle fibre microplastiche lungo tre assi, inclusi la rotazione attorno all’asse longitudinale (spinning) e attorno agli assi trasversali (tumbling). Sperimentalmente il problema è molto complesso per le fibre di 10 micron di diametro e 1 millimetro di lunghezza e richiede sofisticate apparecchiature ottiche con illuminazione laser».

«I risultati hanno rivelato che lo spinning è significativamente superiore al tumbling, principalmente a causa delle fluttuazioni turbolente. Questi dati miglioreranno la previsione della resistenza delle fibre microplastiche e faciliteranno la calibrazione dei modelli di dispersione e sedimentazione delle microplastiche nei flussi oceanici», ha concluso il docente.

Anche la tecnologia fa la sua parte

Non solo ricerche, provvedimenti legislativi, cambio di cultura dei consumi domestici.  Per cercare di limitare l’inquinamento da microplastica anche le nuove tecnologie sono determinanti. Ne sa qualcosa la fondazione The Ocean Cleanup, organizzazione no profit olandese chenegli ultimi anni ha rimosso più di 450 tonnellate di rifiuti dal Great Pacific Garbage Patch, la più grande isola di plastica del mondo, situata al largo dell’Oceano Pacifico (ma ce ne sono altre cinque sparse tra l’Oceano Atlantico, Indiano e l’Artico). Una discarica galleggiante con un’estensione di circa 10 milioni di km², pari alla superficie dell’intero Canada.  

Recentemente la fondazione ha fatto sapere di essere nelle condizioni di poter ripulire l’intera isola nell’arco di 10 anni, grazie a tecnologie di ultima generazione; anche se i costi per farlo sono elevati: si parla di 7,5 miliardi di dollari. Nell’attesa di trovare i fondi per portare avanti il progetto, la fondazione ha deciso di prendersi una pausa operativa che durerà per tutto il 2025. Dodici mesi necessari per mappare con precisione le aree di intenso accumulo di plastica nel Great Pacific Garbage Patch, in modo da rendere il recupero futuro più efficace.

Ma, secondo altri studiosi ed esperti, l’investimento non risolverebbe il problema delle microplastiche nei mari. «Tutti i vortici di plastica si formano nella parte più centrale dei bacini oceanici. Arrivarci è molto costoso e dispendioso in termini di tempo e carburante», ha spiegato Nick Mallos, membro dell’organizzazione Ocean Conservancy, in un articolo pubblicato su New Scientist. Come a dire che sarebbe più efficiente concentrare gli sforzi di pulizia negli ambienti costieri.

Quello che in parte fa Ogyre, la piattaforma digitale di Fishing For Litter che batte bandiera italiana, nata con l’obiettivo di contribuire a rimuovere rifiuti di ogni genere dal mare puntando sull’aiuto dei pescatori, regolarmente remunerati e finanziati attraverso un meccanismo circolare che prevede la raccolta dei rifiuti, il loro riciclo e la realizzazione di prodotti rigenerati da parte di aziende che fanno parte della community di Ogyre.

Nata nel 2020 da un’idea del velista bolognese Andrea Faldella e di Antonio Augeri, imprenditore genovese e surfista, fino a oggi la società ha raccolto 580546 kg di rifiuti marini (ma il contatore sul sito è in costante aggiornamento) tra Italia, Brasile e Indonesia. Un sistema che funziona e che si è posto l’ambizioso obiettivo di recuperare ed eliminare 1,534 milioni di kg di rifiuti entro la fine del 2024.

Sono solo alcuni esempi per far capire che per gestire il problema delle micro e nano plastiche e il loro impatto sulla nostra salute e sull’ambiente ci si sta muovendo in più direzioni.  La rotta è tracciata ma le soluzioni richiedono tempo e soprattutto costanza. 


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