Microplastiche: meglio innovare che pulire

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Negli ultimi anni sono state adottate diverse tecniche per ripulire mari e fiumi dalla plastica presente nelle acque, ma non sempre il rapporto costi/benefici si è rivelato efficace e vantaggioso per l’ambiente e per i promotori di questi interventi. Molto meglio puntare alla ricerca di nuovi materiali ad alto grado di biodegradabilità e, contemporaneamente, agire sul fronte della riduzione dell’utilizzo di plastica vergine in alcuni settori industriali

di Nadia Anzani

L’inquinamento dei mari con rifiuti di plastica è senza alcun dubbio uno dei problemi più urgenti da affrontare per il futuro del nostro pianeta, se è vero che, come indicato dal WWF, ogni anno finiscono negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di polimeri.  Di questa enorme quantità si conta che circa il 94% sia costituito da macroplastiche disperse direttamente in mare sotto forma di rifiuti, mentre la restante parte sia costituita da microplastiche, ovvero da frammenti con una dimensione inferiore ai 5 mm, e da nanoplastiche, le cui dimensioni sono inferiori al micron, con ripercussioni ormai note a livello scientifico sulla biologia di moltissime specie di fauna marina.

Per tenere sotto controllo il fenomeno dell’inquinamento e cercare di contenere il disastro ambientale, si sono sviluppate nel tempo diverse tecnologie: la gran parte, circa il 60%, è costituita da dispositivi di monitoraggio della qualità delle acque (quelli riconosciuti dalla comunità scientifica sono 177), basati sia sul campionamento sia sul rilevamento diretto di alcuni parametri chimico-fisici. Tali sistemi di controllo sono affiancati da altri più sofisticati in grado di prevenire alcune forme d’inquinamento, o altri ancora destinati alla semplice cattura dei rifiuti in mare. Si contano oltre 70 sistemi di lotta all’inquinamento, ma solo a 15 di questi è stato riconosciuto il massimo livello di maturità tecnologica (trl9), che assegna il marchio per la piena operatività. È ovvio che ognuna di queste tecnologie ha costi di esercizio, impatti e livelli di efficacia differenti.

Tra le più note c’è è quella messa a punto da The Ocean Cleanup, organizzazione fondata nel 2013 da Boyan Slat, un inventore e imprenditore olandese che oggi ne è l’amministratore delegato. Slat propone un metodo passivo per rimuovere i rifiuti marini su larga scala, da posizionarsi nelle zone di concentrazione dei rifiuti galleggianti (vortici oceanici), il sistema è costituito da un lungo galleggiante a forma di “u” lasciato alla deriva, di lunghezza variabile, anche oltre due chilometri (0,62 – 1,24 miglia), rallentato da un’ancora collocata in profondità. Un pannello rigido al di sotto del tubo galleggiante cattura e raccoglie i frammenti poco sotto la superficie. Alcuni di questi sistemi sono già operativi e si spostano liberamente nel vortice subtropicale del Nord Pacifico concentrando la plastica in un’area ristretta all’interno della “u”, dove le navi ausiliarie pescano i rifiuti che sono poi trasportati sulla terraferma, presso impianti di trattamento. 

Francesca Garaventa, ricercatrice dell’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del CNR 

Il primo sistema è stato installato a metà del 2018 e The Ocean Cleanup stima di poter ripulire il 50% della grande isola di immondizia del pacifico entro 5 anni dal completamento delle installazioni, iniziato nel 2020. I costi da sostenere sono però decisamente elevati. Si parla di 7,5 miliardi di dollari a fronte di risultati di limitata entità.

«In base a un recente studio, infatti, i 200 sistemi di rete di Ocean Cleanup in funzione per 130 anni raccoglierebbero il 5% della plastica galleggiante in tutto il mondo», precisa Francesca Garaventa, prima ricercatrice dell’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del CNR.  «Pare dunque evidente che la sola attività di raccolta dei rifiuti in mare non è sufficiente a risolvere il problema dell’impatto delle plastiche disperse nell’ambiente marino. Occorre poi tenere in conto il fatto che anche questa attività (traffico navale, uso di reti per la raccolta, operazioni di carico e scarico in marea e a terra), produce a sua volta qualche effetto negativo sull’ambiente».

Più efficiente l’uso su piccola scala

Questo la dice lunga su quanto sia importante progettare tecnologie che tengano conto non solo dei costi energetici, di quelli operativi e di esercizio, ma anche della reale efficacia degli interventi, che deve comprendere i costi ambientali e gli investimenti per la gestione dei rifiuti una volta arrivati a terra. In questa direzione si è fatto qualche importante passo in avanti lavorando su sistemi che si sono dimostrati particolarmente efficaci se applicati ad aree limitate di intervento.

Lo dimostrano alcuni progetti sviluppati da ricercatori internazionali all’interno del progetto Claim, finanziato dall’Unione europea nel 2020. Uno di questi è il sistema clean trash®, costituito da una serie di barriere galleggianti simili a quelle utilizzate per contenere le fuoriuscite di petrolio. Risultati?  In base a quanto rilevato dai ricercatori, se installato vicino alla linea di costa, cioè nei pressi di foci di fiumi o estuari, il sistema riesce a raccogliere oltre il 95 % dei rifiuti macroplastici, costituiti per lo più da plastica e polistirene da imballaggio. Materiale che poi può essere ulteriormente trattato tramite l’utilizzo di un dispositivo di trattamento termico su piccola scala (pirolizzatore), in grado di trasformare un kilogrammo di materiale plastico in un kilowattora. Le piccole dimensioni del pirolizzatore forniscono l’opportunità di operare in luoghi come porti e porticcioli, oppure su piccole navi o imbarcazioni che ripuliscono il mare dalle microplastiche.

Tra le tecnologie più note ideate per tenere sotto controllo il fenomeno dell’inquinamento c’è quella messa a punto da The Ocean Cleanup

Altri sistemi di raccolta della plastica in acqua efficaci e a basso impatto ambientale sono anche gli skimmer e le draghe mobili.  A dirlo è uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Ocean and coastal management da un team di ricercatori internazionali, tra i quali vi è proprio Francesca Garaventa. Anche in questo caso i costi non sono trascurabili (fino a quasi 1 m di euro d’investimento e 0,2 m euro/anno come costi operativi e di manutenzione).

Sono però molto efficienti visto che riescono a rimuovere dalle 4960 alle 6791 tonnellate di plastica l’anno, fattore che li rende tra le soluzioni più economiche. Al contrario i filtri nei sistemi di drenaggio delle acque e le barriere galleggianti hanno capacità più limitate e la loro efficacia è molto legata al loro posizionamento. Promettenti sono invece i “bidoni di mare” perché hanno un costo d’investimento limitato e consentono di rimuovere singolarmente quantità significative di plastica (185 t/anno).

Passi in avanti sulla raccolta di microplastica

Anche sul fronte della cattura delle microplastiche si stanno facendo significativi passi in avanti. «Sempre all’interno del progetto Claim, in collaborazione con l’Istituto svedese KTH Royal Institute of Technology, si sta lavorando su prototipi che utilizzano il processo fotocatalitico, in grado di ridurre le dimensione della microplastica presente negli impianti di trattamento delle acque reflue mediante l’uso della luce solare», precisa Garaventa. Il sistema prevede l’azione di un dispositivo di filtraggio automatizzato dei frammenti e di un reattore fotocatalitico, che si avvale delle nanotecnologie per agevolare la degradazione della plastica in seguito all’esposizione alla luce.

Ridurre e innovare

Al di là dei risultati ottenuti con le tecnologie disponibili sul mercato per ridurre la quantità di plastica dispersa in mare, occorre agire subito anche su altri fronti e puntare a diminuire la produzione di plastica come pure il suo utilizzo, in particolare nel settore del packaging e dei prodotti usa e getta.

«Occorre investire su materiali nuovi progettati in base ai principi del Safe and Sustainable By Design (SSBD) indicato dall’UE: un approccio sistemico per integrare sicurezza, circolarità e funzionalità di prodotti e processi durante tutto il loro ciclo di vita, dalla progettazione al fine vita (considerando anche la possibilità di riciclarli, riutilizzarli). Quindi l’introduzione sempre più massiccia di materiali alternativi alla plastica in alcuni suoi usi, la riduzione drastica di prodotti e articoli monouso, specie quelli impiegati su larga scala, è la chiave per ridurre nel tempo l’inquinamento», dice Garaventa.

L’altro aspetto su cui è determinante andare ad agire riguarda i sistemi di raccolta passiva dei rifiuti di plastica. Questi vanno dalle reti stese in mare aperto fino agli sbarramenti a canne posti alla foce dei fiumi. Tutti sistemi che raccolgono plastica prevalentemente non più riciclabile a causa della lunga permanenza nell’ambiente, o costituita di materiale troppo eterogeneo che, a causa della potenziale tossicità di alcuni additivi, non può essere gestito dai sistemi di riciclo tradizionali. «Per questo lavorare sulla progettazione di materiali plastici nuovi, con requisiti di avanguardia e con additivi meno inquinanti può essere importante», chiosa l’esperta. 

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