Se dall’altra parte dell’Oceano, nei pragmatici Stati Uniti d’America, lo shale gas – o gas da scisti bituminosi – viene considerato da molti la porta che potrebbe aprirsi su una nuova età dell’oro per l’approvvigionamento energetico e la petrolchimica, grazie ai bassi costi di estrazione, in Europa si guarda ancora con diffidenza a questa risorsa, mettendone in evidenza i rischi ambientali, per altro non ancora ben identificati. Alla finestra, i grandi produttori di petrolio e gas, dalla Russia ai Paesi arabi, fino ai nuovi player sudamericani, che temono di perdere il potere che deriva loro dall’avere in mano i rubinetti che portano sviluppo e benessere ai Paesi occidentali.
Opzione a buon mercato
Con il petrolio destinato prima o poi a esaurirsi, e l’opzione nucleare fortemente compromessa dal disastro di Fukushima, restano come alternative il carbone e il gas. Se il primo è suscettibile di uno sfruttamento anche petrolchimico dove presente in grandi quantità – come per esempio in Cina –, è dal secondo che gli analisti si aspettano i maggiori benefici nei prossimi decenni, anche grazie allo sviluppo di tecnologie a basso costo per estrarlo, non dai giacimenti convenzionali ma dalle rocce argillose, dove il metano è imprigionato da tempi immemorabili. Non è un caso che l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) parli addirittura di una nuova “golden age” per il gas naturale, arrivando a ipotizzare che gli Stati Uniti, proprio grazie allo shale gas, possano superare la Russia nell’estrazione di metano nell’arco di pochi anni.

Diffuso un po’ dappertutto
Rispetto a petrolio, carbone e gas convenzionale, lo shale gas sembra meno concentrato in poche aree geografiche; in altre parole, potrebbe rivelarsi una fonte energetica più “democratica”. Giacimenti importanti sono stati identificati in Polonia e in Ucraina, per esempio, ma si ipotizza che ve ne siano di significativi anche in Austria, Francia e in Italia, solo per restare in Europa. Sono gli Stati Uniti, tuttavia, a essere un passo avanti a tutti nello sfruttamento di queste risorse, per una serie di motivi: i vincoli burocratici e ambientali sono minimi, ed esiste una rete di pipeline aperta che favorisce l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti, anche da parte dei proprietari dei terreni, che per la legge americana sono titolari anche di ciò che si trova nel sottosuolo. Quanto basta per lanciare una nuova corsa all’oro, in pieno stile pionieristico, tanto che oggi il gas da giacimenti non convenzionali rappresenta già il 20% del totale, con la stima di arrivare al 60% entro il 2020. A livello globale, secondo le stime, la produzione di shale gas possa triplicarsi entro il 2035.
Una rivoluzione che potrebbe cambiare gli equilibri geopolitici nella fornitura di energia, con gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali che potrebbero raggiungere la piena autosufficienza energetica; con una forte ricaduta nel settore della petrolchimica, grazie alla possibilità di produrre etilene da gas etano a un costo sensibilmente più basso rispetto a quello ricavato da petrolio. Ciò significa, tra l’altro, poliolefine a buon mercato, competitive rispetto a quelle prodotte in Medio Oriente, dove sono in corso progetti di decine di miliardi di dollari; e con il rischio di mettere fuori gioco le mature capacità europee, dove il gas è oggi 3-4 volte più caro di quello americano.

L’America ha grandi progetti
L’America sembra credere a queste promesse e, come abitudine, lascia da parte i dubbi e mette in campo risorse economiche. L’ultimo annuncio, in ordine di tempo, è giunto da ExxonMobil Chemical, che ha presentato richieste di autorizzazione per costruire a Baytown, in Texas, un nuovo steam cracker da 1,5 milioni di tonnellate annue per la produzione di etilene da etano e, nel vicino impianto di Mont Belvieu, due unità per polietilene, ognuna da circa 650.000 tonnellate annue. I lavori potrebbero partire già nei primi mesi dell’anno prossimo, per avviare le produzioni entro la fine del 2016. Anche Chevron Phillips Chemical non vuole perdere il treno dello shale gas: il progetto, in questo caso, riguarda due linee per polietilene a Old Ocean, in Texas, ognuna da 500.000 tonnellate annue di capacità, da avviare entro il 2017. Il progetto, annunciato nel marzo dello scorso anno, prevede anche la realizzazione di un cracker da 1,5 milioni di tonnellate a Cedar Bayou, nello stesso stato americano.

Shell Chemical guarda invece alla Pennsylvania: il gruppo petrolchimico statunitense ha scelto la contea di Beaver County, per mettere in marcia un nuovo complesso petrolchimico costituito da un cracker world-scale per etilene, alimentato con il gas naturale dei vicini giacimenti di Marcellus, che potrebbe essere integrato a valle con la produzione di polietilene e altri derivati, come il glicole monoetilenico.
Un altro importante produttore di poliolefine con interessi negli USA, LyondellBasell, ha ottenuto un finanziamento di 4,5 milioni di dollari dal dipartimento statunitense per l’energia (DOE) allo scopo di sviluppare nuove tecnologie a base di catalizzatori capaci di migliorare l’efficienza energetica nei processi di sintesi di etilene da gas etano. Il progetto di ricerca triennale vede la collaborazione di LyondellBasel, Quantiam Technologies e BASF Qtech. L’obiettivo è di adattare al cracking di etano e gas naturale liquefatto la più recente tecnologia di rivestimento catalitico messa a punto da BASF Qtech per lo steam cracking di etano e nafta. Ai 4,5 milioni di dollari forniti dal governo americano, i partner aggiungeranno ulteriori 2,2 milioni di dollari.

L’Europa sta a guardare
Diversa la situazione in Europa, dove la rete dei gasdotti è più controllata e lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo è riservato agli Stati e non ai privati; per non parlare dell’iter burocratico necessario per ottenere concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimento. La maggiore densità di popolazione, inoltre, rende più complicato operare senza doversi confrontare con le comunità locali, che appena sentono parlare di fracking si mettono, comprensibilmente, in allarme.
La tecnica è utilizzata da quasi mezzo secolo, ma è diventata più efficiente negli ultimi anni, abbinata alla trivellazione orizzontale. I giacimenti si trovano infatti tra i 2.000 e i 4.000 metri di profondità: per raggiungerli si effettua prima una perforazione verticale fino allo strato di rocce e, in seguito, una perforazione orizzontale negli strati rocciosi, seguita dalla fratturazione idraulica. La resa è comunque inferiore: circa il 30% contro più del 70% dei giacimenti di gas tradizionali.
Più che i vincoli normativi e burocratici, a rallentare lo sfruttamento dello shale gas in Europa sembra essere la fronda degli ambientalisti, in qualche caso aiutata – in senso lato – da lobby che vedono in questa nuova fonte energetica la fine di equilibri ben consolidati e di oligopoli fino a oggi molto redditizi. Così, in attesa di approfondimenti scientifici sui rischi ambientali di questa tecnica di estrazione del gas, la Francia ha introdotto per prima una moratoria all’utilizzo del fracking; Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca hanno seguito la stessa strada, sospendendo o revocando le concessioni in attesa di certezze dal mondo scientifico. Anche la Polonia, che sperava di raggiungere con lo shale gas l’indipendenza energetica dalla vicina Russia, sta pensando a una moratoria temporanea, rinunciando però a qualcosa come 2.000 miliardi di metri cubi di gas, anche se solo in parte estraibili con le tecnologie oggi disponibili.
Chi frena lo shale gas
In corsa per lo shale gas c’è anche l’Italia, attraverso ENI, che sta per rilevare diritti esplorativi in Ucraina attraverso l’acquisizione del 50% di Westgasinvest. Il gruppo italiano ha iniziato a investire nel gas da scisti nel 2010 comprando tre licenze nel Baltico e in Polonia, grazie alle competenze tecnologiche acquisite grazie a una joint-venture tecnologica avviata in Texas. In altre aree del pianeta, non sono i timori ambientali a frenare lo sfruttamento di questa risorsa, quanto la mancanza delle grandi quantità d’acqua necessarie all’estrazione del gas di scisto, che utilizzano questa risorsa iniettata ad alta pressione nel sottosuolo per frantumare le rocce e liberare il gas. Così la Cina, pur essendo il principale bacino al mondo di shale gas, trova difficoltà a sfruttarlo. La partita è ancora aperta, visto che petrolio e gas convenzionale per ora non mancano, ma i giochi si fanno oggi, considerati i tempi necessari per esplorare, sfruttare i giacimenti e investire negli impianti a valle. Giochi da cui l’Europa rischia di essere tagliata fuori, con buona pace di nazioni come l’Italia, dove il mix di approvvigionamento energetico è sbilanciato verso pochi fornitori, Paesi non sempre di specchiata stabilità politica ed economica.
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