Oltre al medagliere degli atleti azzurri, alle Olimpiadi di Londra il Made in Italy ha conquistato un altro primato. Una piccola azienda del vicentino, Fabbrica Pinze Schio, si è aggiudicata la fornitura delle posate in plastica biodegradabile e compostabile utilizzate da atleti, tecnici e dirigenti – oltre 17mila persone – nel Villaggio Olimpico durante il periodo delle competizioni. Le posate, in tutto 15 milioni di pezzi per un valore di 350 mila euro, targate con il marchio Ecozema sono in Mater-B. «La materia prima, cioè amidi vegetali contenuti nel mais, nei girasoli e in altri prodotti agricoli – racconta a Plastix Antonio Munarini, responsabile ricerca e sviluppo e nipote del fondatore dell’azienda – proviene dai campi della regione Umbria e viene trasformata nello stabilimento Novamont di Terni. Quindi arriva a noi per la lavorazione».
Cosa ha favorito la svolta “bio” nelle strategie aziendali?
È un percorso lungo, la cui origine è legata all’invasione dei prodotti a basso costo, che nel settore in cui operiamo è iniziata almeno trent’anni fa. I nostri concorrenti hanno cominciato allora a importare dalla Cina pinze per il bucato e altre merceologie per la cura della casa. Abbiamo risposto con il servizio, puntando sia su una produzione personalizzata, funzionale alle private label della grande distribuzione, sia su un’offerta più competitiva. In questo senso, l’apertura del mercato cinese si è trasformata per noi in opportunità: abbiamo individuato prodotti interessanti, economicamente vantaggiosi, e li abbiamo inseriti nel nostro catalogo. Oggi, realizziamo direttamente solo i prodotti di maggior valore aggiunto e gestiamo le altre merceologie critiche con la collaborazione di alcuni terzisti della zona. Il resto lo acquistiamo.
Ma torniamo alla Cina. Diceva che è si rivelata un’opportunità…
Sembra incredibile, ma uno dei nostri prodotti “verdi” è di origine cinese. Si tratta di piatti monouso in polpa di cellulosa, una materia prima a basso costo e molto abbondante nel continente asiatico. Il piatto fa parte, insieme a posate e bicchieri, di un coperto interamente “bio”, cioè compostabile secondo la UNI EN 13432.
Come nasce l’idea di utilizzare biopolimeri?
È arrivata da Armido Marana, il nostro amministratore delegato, che forte della sua esperienza nel settore delle bioplastiche ci ha portato a considerarle un’alternativa ai materiali tradizionali. E così, dopo un’accurata analisi di mercato, abbiamo individuato un prodotto mancante: la posata compostabile. Le buone relazioni con Novamont hanno facilitato la condivisione di un percorso di ricerca che muovesse dall’idea del prodotto finito per arrivare allo sviluppo di un grado di MaterBi adatto allo stampaggio a iniezione. La prima posata “bio” a marchio Ecozema è nata nel 2005, un periodo in cui, in Europa, circolavano i primi manufatti in plastiche biodegradabili ma, a differenza di questi, la nostra posata era già compostabile. L’uovo di Colombo? Non so, certo questo ci ha permesso di ritagliarci una nicchia ben definita in un mercato in crescita.
È stato semplice metabolizzare i nuovi metodi di lavoro?
Il progetto Ecozema ha inciso profondamente sull’organizzazione di una piccola impresa come la nostra. In presenza di grandi ordinativi occorre gestire abilmente la produzione e le scorte. Nel rapporto con i clienti, che spesso chiedono informazioni e aggiornamenti relativi alle norme a prescindere dalla stipula di una contratto, siamo tutti in prima linea. Crediamo inoltre nel valore delle partnership. Ne abbiamo instaurate a diversi livelli: di tipo industriale per quanto riguarda la produzione, di tipo commerciale per la fornitura di articoli complementari o accessori ai nostri, oppure incentrate su iniziative di comunicazione e marketing.
L’ecosostenibilità delle bioplastiche è un argomento oggi piuttosto dibattuto…
A differenza delle plastiche tradizionali, ormai sul mercato da molti anni, non sono ancora a disposizione dati sufficienti per condurre uno studio di LCA attendibile. In particolare, sono ancora molto scarse le informazioni relative al fine vita dei manufatti realizzati con le plastiche compostabili, senza delle quali un’analisi del ciclo di vita non può che portare a una valutazione negativa per i biopolimeri.
Quali sono i driver che spingono a scegliere stoviglie compostabili?
Il prodotto non è destinato a un consumatore di nicchia, che sceglierebbe il prodotto solo per ragioni etiche. E questo perché, come spiegavo, il principale vantaggio nell’impego di questi prodotti è legato al loro corretto smaltimento, che può avvenire solo se il Comune in cui si risiede organizza la raccolta differenziata dei rifiuti da avviare al compostaggio. E teniamo conto che in alcune grandi città italiane, per esempio Milano, questo ancora non avviene. Invece, il potenziale di questi materiali si apprezza davvero in occasione di eventi che coinvolgono un grande numero di persone: manifestazioni fieristiche, eventi sportivi… In questi casi è possibile gettare nello stesso contenitore stoviglie e avanzi alimentari, evitando i costi di separazione. Non dimentichiamo poi che il costo della raccolta della frazione umida è inferiore (il valore è variabile e dipende dall’area geografica, ndr) rispetto a quello dell’indifferenziata, con ovvi ritorni economici per gli organizzatori.
Detto questo, non ha molto senso parlare di scelta etica al mercato consumer…
Sì, anche perché, in Italia, il prezzo delle stoviglie compostabili è decisamente alto. Per altri Paesi, per esempio gli Stati Uniti che assorbono buona parte del prodotto cinese, il discorso è diverso. Il consumatore è molto sensibile alle tematiche “green”, ha disponibilità di questi prodotti a buon prezzo e li acquista senza pensare allo smaltimento. Il prezzo è più basso perché la qualità del prodotto è inferiore: non è compostabile. Sembra incredibile, ma su questo versante l’Italia è un pioniere!