Con la Direttiva SUP la Commissione Europea ha emanato le linee guida per contrastare l’utilizzo delle plastiche monouso che, quando indebitamente disperse nell’ambiente, finiscono per inquinare i mari. Da questo punto di vista, il problema – come sostiene l’industria delle materie plastiche – non è il materiale ma la cattiva gestione del post consumo. L’UE però ha però deciso di intervenire a monte, vietando l’immissione sul mercato di alcuni prodotti usa e getta, limitandone altri e spingendo sulla plastica riciclata, escludendo – almeno al momento – le bioplastiche, materiali su cui nell’ultimo decennio l’Italia ha puntato molto. È la scelta giusta?
Anni di campagne condotte al grido di “plastic free” hanno confuso l’opinione pubblica, demonizzando i polimeri tradizionali in favore di quelli bio nonostante gli stessi produttori di bioplastiche abbiano più volte rimarcato che i loro prodotti non sono la soluzione, sottolineando le problematiche connesse al fine vita dei manufatti. Come possiamo dunque rispondere in modo oggettivo e rigoroso alla tipica domanda lapidaria “Inquina di più la plastica o la bioplastica?”. Ritengo che l’unica risposta oggettiva e rigorosa nasca dall’approccio scientifico, in questo caso supportato da analisi del ciclo di vita dei diversi manufatti e non dei materiali tal quali. E, fortunatamente, la diffusione degli strumenti di Life Cycle Assessment (LCA) è in aumento tra gli addetti ai lavori.
Uno studio di meta-analisi dedicato alle bottiglie
Uno degli oggetti più analizzati tramite studi LCA è la bottiglia in plastica monouso, spesso utilizzata come “case history” per mostrare, a livello didattico, le potenzialità di questo tipo di analisi. La bottiglia sarà l’argomento di discussione anche nel presente articolo, prendendo spunto dallo studio di meta-analisi “Single-use plastic bottles and their alternatives” condotto dall’IVL Swedish Environmental Research Institute AB per conto dell’UNEP (United Nations Environmental Programme) e pubblicato nel 2020.
La ricerca prende in esame sette pubblicazioni dedicate a tre tipi di confronti:
• bottiglie monouso in PLA, PET vergine, PET riciclato e PET bio-based;
• bottiglie monouso e riutilizzabili ottenute con diversi materiali;
• bottiglie monouso in plastica e sistemi per la distribuzione di acqua potabile che non prevedono l’impiego di bottiglie.
Poiché la trattazione è molto approfondita e presenta numerosi risvolti, ci soffermeremo esclusivamente sul confronto tra i diversi tipi di bottiglie usa e getta. Una premessa doverosa, che vale in realtà per tutti gli LCA in cui si confrontano tecnologie consolidate e nuove, è che gli impatti di queste ultime sono generalmente superiori (spesso anche molto) di quanto non saranno quando avranno raggiunto una certa maturità, e quindi saranno state ottimizzate. In parecchi casi, infatti, non sono ancora state create economie di scala, reti di produzione, distribuzione e smaltimento adeguate, e pertanto l’impatto attuale verrà sicuramente risolto con il passare degli anni. Lo studio precisa tutti questi aspetti, formulando previsioni per un futuro in cui alcune fonti “bio” avranno un impatto inferiore a oggi.
Bottiglie in PET da fonti fossili, bio-based e da riciclo
Il confronto tra bottiglie realizzate con diversi tipi di PET si basa su un articolo pubblicato nel 2018 da Benavides et al. [1]. L’analisi prende in esame bottiglie monouso da mezzo litro prodotte e consumate negli USA ottenute impiegando PET tradizionale, PET 100% bio-based, PET riciclato o PET bio e vergine miscelati in diverse proporzioni (tabella 1). Lo studio, strutturato come un LCA “cradle-to-gate”, considera tre categorie di impatto ambientale: il cambiamento climatico, l’uso di fonti fossili e il consumo di acqua.

Bottiglie in PET da fonti fossili e rinnovabili
Nell’articolo pubblicato nel 2016 da Chen et al. [2], sempre relativo alla realtà degli USA, viene confrontato l’impatto di bottiglie in bioPET ottenute da diverse fonti lignocellulosiche – in particolare mais, pànico verga (erba molto comune nelle praterie degli Stati Uniti), grano e legno –, di bottiglie in PET tradizionale e realizzate con miscele di PET e bioPET. Si tratta di uno studio “cradle to gate”, come quello precedentemente illustrato, dal quale però si differenzia perché il focus è sui diversi tipi di fonti rinnovabili utilizzate e perché valuta gli impatti ambientali ottenuti sia quando si escludono, sia quando si includono i cosiddetti impatti evitati.
Vengono considerate molte categorie di impatto, che spaziano dalle più “tradizionali”, come i cambiamenti climatici e il consumo di fonti fossili, ad altre solitamente meno studiate, come l’acidificazione e l’eutrofizzazione, la produzione di fumo e particolato o l’assottigliamento della fascia di ozono (tabella 2).

Anche in questo caso, come per lo studio di Benavides, gli autori sostengono che gli impatti del bioPET sono destinati a diminuire drasticamente negli anni (un po’ come è accaduto per le raffinerie tradizionali nei decenni passati) grazie alla progressiva ottimizzazione dei processi di bioraffinazione.
Bottiglie in PET e in PLA
L’ultimo studio presentato, pubblicato da Papong et al. [3] nel 2014, raffronta l’impatto di bottiglie ottenute impiegando PET da fonti fossili e PLA derivato da radici di manioca (cassava). La ricerca si riferisce alla realtà thailandese e considera l’impatto sul clima, l’uso di fonti fossili, l’acidificazione, l’eutrofizzazione e la tossicità per l’uomo. L’aspetto interessante è che gli autori non si limitano a prendere in esame lo scenario attuale, ma forniscono alcuni spunti per migliorare la produzione e sottolineano quali operazioni di fine vita preferire. Lo studio confronta l’impatto di 1.000 bottiglie da 0,25 litri in PET e in PLA considerando tre diversi scenari di produzione del PLA, un caso “base” e due con opzioni di miglioramento future, sette possibili scenari di fine vita delle bottiglie in PLA e tre delle bottiglie in PET. Le comparazioni tra scenari sono realizzate con diversi limiti di sistema e indicatori.


Una risposta difficile
I risultati delle analisi discusse non riescono a rispondere in modo assoluto e inequivocabile alla domanda “la bioplastica inquina meno della plastica tradizionale?”. Il lettore ne se sarà sorpreso – o forse deluso –, ma affinando ulteriormente gli studi LCA sicuramente in un futuro non lontano si riuscirà a trarre conclusioni più precise.
Tenendo conto delle numerose sfaccettature del termine “bioplastica” – dal tipo di polimero alla natura della fonte da cui deriva –, gli studi LCA riportati nel report UNEP sembrano indicare che il PET di origine fossile non è il materiale peggiore con cui produrre bottiglie monouso, soprattutto in considerazione della possibilità di un efficiente riciclo meccanico del post consumo. È pur vero, però, che tutti gli studi considerati concordano nel ritenere molto promettenti le tecnologie di produzione del bioPET o la fabbricazione di bottiglie in bioplastica, soprattutto in vista dell’ottimizzazione futura dei processi. Insomma, il concetto sembrerebbe essere “it’s a long way to the top”: l’impatto ambientale sta diminuendo e continuerà a farlo, ma serviranno sforzi notevoli in tutte le direzioni.