Metti insieme tre dinamici ingegneri fiorentini non ancora quarantenni con la passione per l’imprenditoria, i nuovi materiali e l’economia circolare, un architetto specializzato nel design di prodotto e di interni, un ricercatore e designer italiano che vive ad Amsterdam, collaboratore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Utrecht. Combina poi la miscela di competenze con i funghi, sorprendenti e tenaci creature della natura, capaci di sopravvivere e proliferare in molteplici condizioni, ma soprattutto in grado di agire da collante naturale nelle fibre. Il risultato è Mogu, un composito resistente e versatile come i materiali sintetici, ma biodegradabile e compostabile, molto simile al polistirene espanso.
Mogu è sviluppato e prodotto da Mycoplast di Inarzo (Varese), azienda fondata da Stefano Babbini, Maurizio Montalti, Federico Grati, Francesco Amadio e Francesco Giannetti. Oggi al gruppo si sono aggiunti un responsabile della comunicazione e un biotecnologo, e sono state avviate collaborazioni con tre università in Italia e in Olanda.
Mogu: perché i funghi?
La tecnologia messa a punto da Mycoplast utilizza l’apparato radicale dei funghi, il micelio, per trasformare e legare sottoprodotti dell’agricoltura o del manifatturiero (paglia, sfalci, segatura, bucce di pomodoro, fondi di caffè…) costituendo un nuovo materiale al 100 per cento compostabile. Questo è possibile perché i funghi tendono a crescere su qualsiasi materiale organico che contenga cellulosa, un polisaccaride naturale a base di zuccheri, di cui si cibano. Se ne ricava un materiale composito piacevole al tatto, flessibile, leggero, resistente agli urti, oltre che in alcuni casi all’acqua e al fuoco, utilizzabile – a seconda del tipo di fungo, di substrato e di trattamenti post-crescita – in bioarchitettura, nel design o nel packaging.
Come nasce Mogu
«A differenza di altre tecnologie impiegate per produrre biopolimeri, quella sviluppata dall’azienda varesina non ha bisogno di condizioni ambientali spinte, come temperature o pressioni elevate, ma solo di tempo e di un ambiente controllato», spiega Stefano Babbini, ingegnere ambientale e amministratore delegato di Mycoplast. I residui agro-industriali vengono sterilizzati con il vapore, per eliminare potenziali microrganismi competitivi, e quindi rinchiusi in un sacco speciale che permette uno scambio controllato di gas con l’esterno. Al suo interno vengono poi introdotte le spore di ceppi fungini selezionati, che iniziano a crescere cibandosi degli zuccheri complessi contenuti nella biomassa.
Il materiale così ottenuto viene tritato e stampato nella forma desiderata, quindi essiccato a 90 gradi per devitalizzare il fungo. Quello che resta è un materiale leggero come il polistirene espanso e biodegradabile, impermeabile e resistente alla fiamma, fatto essenzialmente da due proteine: chitina, che forma lo “scheletro” del fungo, e lignina, la componente della biomassa iniziale che non viene “digerita” dal fungo.
L’azienda, che già detiene le licenze per utilizzare un fungo che produce bioplastica di qualità, sta collaborando con alcuni istituti di ricerca universitari per sviluppare una linea di specie fungine avanzate e ottimizzate per la produzione dei propri materiali.
Un esempio creativo di economia circolare
Bioedilizia, arredamento, industria automobilistica, imballaggio: sono molti i settori dove può trovare impiego Mogu. «Nell’edilizia, per esempio, può sostituire prodotti tradizionali come il polistirene espanso per gli isolamenti termo-acustici, oppure legni compositi per realizzare pavimenti o altri tipi di pannelli e strutture. È inoltre una scelta ecologica nell’oggettistica, dove può sostituire plastica, gomme, carta o pellami», sostiene Babbini. Può essere utilizzato anche per gli interni delle automobili. «Interessanti le potenziali applicazioni nel packaging rigido, per contare su un prodotto totalmente ecologico che può essere realizzato con scarti di produzioni locali, in un ciclo virtuoso. Un esempio: le cantine possono utilizzare gli scarti dell’attività viti-vinicola per autoprodursi gli imballaggi in cui contenere e trasportare le bottiglie di vino, invece di utilizzare il tradizionale polistirolo. In questo modo si abbattono i costi e si fa pure marketing verde. L’idea vincente è proprio quella di stimolare un’industria a rifiuto zero», fa notare l’ingegnere. La materia prima su cui avviare la coltivazione dei funghi, infatti, può essere diversa a seconda del proprio ambito produttivo: basta selezionare i funghi adatti a valorizzare in modo utile e creativo le biomasse di scarto di cui si dispone, che spesso rappresentano un problema ambientale e un costo di smaltimento.
Le sfide del futuro
Non è facile confrontare le performance delle bioplastiche realizzate da Mycoplast con quelle delle plastiche tradizionali, perché la composizione polimerica è diversa. Si possono invece comparare le modalità di produzione: nel caso di Mogu hanno un minor impatto ambientale, ma il rovescio della medaglia è che, a differenza della plastica convenzionale, servono più spazio e tempo. Un ipotetico stabilimento produttivo di tipo commerciale dovrebbe avere almeno una superficie da 3.000 a 5.000 metri quadrati e affinché i funghi colonizzino un singolo sacco di paglia serve almeno una settimana.
«Sono due le sfide tecnologiche che abbiamo di fronte», spiega Babbini. «La prima è riuscire a ingegnerizzare il processo mantenendo dei costi di produzione sostenibili. In altre parole, abbiamo dimostrato che è facile produrre bioplastica a partire dalla paglia, ma dobbiamo riuscire a portare il processo su scala commerciale. La sfida successiva è la più avvincente: oltre a realizzare del packaging verde, vorremmo sviluppare delle chitine pure che possano essere impiegate in applicazioni medicali, come la realizzazione dei fili per le suture, o nella cosmesi. Si tratta di prodotti con un altissimo valore aggiunto che richiedono un elevato grado di tecnologia. Ma per superare questa seconda sfida avremo bisogno dell’aiuto di un grande player industriale, leader nel settore», conclude Babbini.